Daniele Lettig / Trieste Scienziata celebre in tutto il mondo per le sue ricerche sulle cellule staminali nervose e la malattia di Hungtinton, docente di Farmacologia all’Università di Milano e senatrice a vita. Elena Cattaneo ha fatto tappa ieri sera al festival Trieste Next, parlando del suo ultimo libro, “Armati di scienza”. Professoressa, che cosa vuol dire essere “armati di scienza”? E che rapporto deve esserci tra le scienze “dure” e le scienze umane? «Il titolo è un invito a farsi forza del metodo scientifico, sia come individui che come collettività. Opinioni, narrazioni e fake news possono sviare la mente; ciò che non conosciamo può farci paura. Dobbiamo immaginare il metodo della scienza come una bussola che permette di affrontare l’ignoto un pezzo per volta fino a conoscerlo al meglio delle condizioni date. Questo metodo può essere applicato a tutte le discipline: il punto di partenza è un’idea, quello di arrivo è un insieme di prove verificabili che non possono essere liquidate come “opinioni”; nel mezzo c’è la fatica, la passione, le verifiche e, spesso, i fallimenti. La conoscenza è un tutt’uno, dove ogni disciplina completa l’altra e tutte insieme aiutano a comprendere la complessità del reale». Oltre a quello di scienziata, lei ha anche un ruolo politico come senatrice a vita. Pensa che in questo anno e mezzo di pandemia la comunicazione scientifica sul Covid sia stata efficace, o si poteva fare meglio? E quella della politica? «Di fronte alla pandemia è stato naturale rivolgersi alla scienza. Sono emerse così le difficoltà di un rapporto fra mondi che non si conoscevano. Da un lato si è chiesto alla scienza l’impossibile, cioè fornire certezze assolute su un oggetto – il nuovo coronavirus – allora sconosciuto, e si è pensato di poter applicare alla scienza la tendenza alla semplificazione e alla polarizzazione propria del dibattito dei talk show e dei social network. Dall’altro gli scienziati hanno spesso sottovalutato il gap comunicativo dovuto a un passato in cui si è rinunciato a raccontare ai cittadini la complessità e l’incertezza, insieme alla meraviglia quotidiana, del lavoro della ricerca e della scoperta. Dal punto di vista della politica, noto come sia sempre difficile arrendersi all’idea che la decisione perfetta è impossibile, così come in natura non esiste il rischio zero. Ma anche “decidere di non decidere” è una decisione, che porta a lasciarsi trascinare dagli eventi anziché provare a governarli». Secondo lei, in che modo si può riuscire a instaurare un confronto con i cittadini che nutrono dubbi o magari solo paura riguardo ai vaccini? «Lo scienziato ha un ruolo sociale molto importante che consiste nell’offrire dati ed evidenze come base per le decisioni che riguardano la comunità, nell’interesse e per il benessere di tutti. I dubbi di un cittadino di fronte ai vaccini o ad altre conquiste della scienza devono essere ascoltati, compresi e affrontati. È poi un dovere per chi conosce e pratica il metodo scientifico chiarire in ogni possibile occasione la differenza tra certezze e probabilità, tra fatti verificati e ipotesi che, per quanto affascinanti, necessitano ancora di prove prima di poter essere prese a ispirazione di politiche pubbliche». Perché nel nostro paese la ricerca scientifica continua a essere poco finanziata? Lei ha delle proposte di per rendere più efficace questo settore? «Spesso la politica italiana ha sottovalutato il potenziale degli investimenti in ricerca scientifica, e negli anni si è evidenziata anche una difficoltà a individuare le modalità migliori per far sì che tali investimenti potessero migliorare la competitività del Paese. La necessità è quindi duplice: fondi adeguati e strutturali per la ricerca accompagnati da competitività e trasparenza nella loro erogazione. La gestione del PNRR e la prossima legge di bilancio saranno i primi banchi di prova sull’effettiva volontà delle istituzioni di riconoscere che istruzione e ricerca sono il migliore investimento per il futuro del Paese». Come riuscire a sradicare i blocchi e i pregiudizi che ancora allontanano molte ragazze dall’intraprendere lo studio delle materie scientifiche? «Storicamente le donne sono state tenute lontane dalla vita pubblica, dallo studio e da ogni possibilità di autorealizzazione. Le cose stanno cambiando in tutti i settori, e l’ambito scientifico non fa eccezione. Il mio consiglio è di seguire le proprie aspirazioni, sempre, senza tarparsi le ali prima di aver spiccato il volo. Gli elementi fondamentali per chi vuol fare scienza sono la curiosità, lo studio e la tenacia, che al mondo femminile non difettano affatto, anzi».
Ingegneri o umanisti? Il duello sui veri attori della transizione green
Diego D’Amelio / Trieste Per condurre in porto la transizione servono ingegneri oppure umanisti? È diventata una (cortese) singolar tenzone fra il presidente del Porto di Trieste Zeno D’Agostino e il numero uno del gruppo Danieli Gianpietro Benedetti il dibattito organizzato a Trieste Next su capitale umano, innovazione e sfida della sostenibilità. Per D’Agostino, «la complessità di oggi è maggiore di 15 anni fa: negli ultimi anni sono poi successe tante cose imprevedibili che hanno sconvolto il modo di produrre e reso poco credibili i grandi scenari. Bisogna pianificare, ma la vera capacità è la resilienza. La formazione umanistica è fondamentale in questo momento: servono tanti ingegneri e bisogna puntarci, ma per prendere in mano la transizione e gestire la complessità serve un sapere diverso. Mi hanno chiesto che formazione debba avere il presidente di un porto e ho risposto che dovrebbe avere una laurea in filosofia, perché servono menti capaci di affrontare la trasformazione». Il presidente e ad della multinazionale dell’acciaio Benedetti la vede diversamente: «Capisco la visione umanistica, ma non vedo i risultati e la visione non è un monopolio di nessuno. La nostra squadra è formata all’85% da tecnici ma abbiamo individuato la strada per dimezzare le emissioni della produzione di acciaio e lavorare sull’idrogeno. All’Abs ci siamo pure inventati la produzione di alghe con il reimpiego delle emissioni di Co2. Per fare questo serve gente che fa e non che parla: per fare ci servono tecnici e ingegneri». Ma che di umanisti o di ingegneri si tratti, il cambio di paradigma richiede un radicale ripensamento della formazione, per preparare i ragazzi a una società e un mercato del lavoro, dove stanno nascendo centinaia di mestieri impensabili fino a un decennio fa. Il punto è sottolineato dalla professoressa Vera Zamagni: «Serve un big push nel nostro sistema di formazione. I programmi scolastici sono di vent’anni fa e i professori non fanno attività innovative nemmeno all’università. Per i nuovi mestieri vanno valorizzati moltissimo gli istituti tecnici superiori, che vanno collegati a università e aziende per produrre un’istruzione legata ai bisogni». Non manca la stoccata agli imprenditori: «Dicono che mancano laureati nelle materie tecniche? Molti in realtà trovano stipendi bassi e vanno all’estero, altri restano disoccupati. Le aziende si diano una mossa: paghino borse di studio, offrano progetti agli studenti». Nuovi mestieri servono a inventare nuovi modelli di sviluppo. A cominciare dall’energia, dice l’ad del gruppo Hera Stefano Venier: «La sfida della resilienza chiede di adattare le nostre infrastrutture, decarbonizzare e rendere sostenibili i processi industriali, produrre energia attraverso fonti rinnovabili non programmabili e aggiornare la rete di distribuzione. Per questo servono competenze più evolute». —
Se la magia dell’arte e la forza delle parole entrano in corsia nell’ospedale del futuro
Giulia Basso / Trieste È un progetto nato a Bergamo poco prima dell’esplosione pandemica, un esperimento che ha portato i capolavori della pittura italiana, ma anche parole e voci, all’interno di due ospedali. Nei reparti che nell’emergenza hanno lavorato a pieno ritmo per curare i tanti pazienti affetti dal virus e da tutte le altre malattie che non hanno smesso di colpire gli esseri umani, nei corridoi vuoti degli ospedali Humanitas Gavezzeni e Castelli sono entrate una cinquantina di opere d’arte in maxi-formato, tratte dai capolavori della pinacoteca Accademia Carrara. Le opere sono state accompagnate dalle parole e dalle voci di undici autori della cultura italiana, che ispirandosi ai dipinti hanno ideato dei racconti, proposti sotto forma di podcast, da ascoltare inquadrando un semplice QR code affiancato al dipinto, e raccolti in un libretto donato ai pazienti. All’esperimento “Opere in Parole”, un’idea di ospedale del futuro la cui missione sia migliorare la vita dei pazienti e non solo curare le loro malattie, Trieste Next ha dedicato ben due appuntamenti del suo cartellone, uno per il pubblico e uno riservato ai 300 studenti del progetto “Academy”. A raccontarlo sul palco, oltre al direttore sanitario degli ospedali coinvolti, Massimo Castoldi, e a quello del dipartimento di Anestesia e Terapia intensiva Giovanni Albano, anche due degli autori che hanno aderito all’iniziativa, la scrittrice Michela Murgia e il giornalista Oliviero Bergamini. «Di questo progetto mi ha affascinato il fatto che si creasse un legame tra l’arte e la salute, i cui percorsi all’interno degli ospedali tendono a essere funzionali e non relazionali. L’arte invece è uno strumento relazionale, non sempre in senso rassicurante: può essere destabilizzante e minare i nostri pregiudizi. La malattia fa lo stesso, ci sposta dalla condizione in cui ci trovavamo e ci obbliga a rivederne i termini», evidenzia la scrittrice, autrice del racconto “Il leone”, nato dalla visione di una fanciulla con ventaglio dell’artista Pitocchetto e di “San Girolamo e il leone” di Rogier Van der Weyden. Per Murgia le parole determinano il modo in cui pensiamo e quindi il mondo in cui viviamo. «Se quando sono stata malata avessi potuto vivere un’esperienza di bellezza e destabilizzazione interiore come quella proposta a pazienti e medici degli ospedali bergamaschi, probabilmente avrei trovato prima delle parole per dare un significato profondo a ciò che stavo vivendo», spiega. «Nel periodo peggiore dell’anno scorso in 45 giorni abbiamo avuto 6000 morti in più rispetto all’anno prima. L’hanno chiamata guerra, ma per me il 2020 è stato l’anno della cura, del prendersi cura”, chiosa Castoldi. Albano confessa come non sia scattato un amore a prima vista per questo progetto: «Noi medici siamo avvezzi a un solido pragmatismo, perciò se qualcuno avesse sostenuto che un quadro può avere lo stesso effetto di un antibiotico mi sarei voltato dall’altra parte. Ma il Covid ha stravolto completamente l’ospedale e mi ha aperto gli occhi. Più del caos nei reparti d’emergenza, mi ha fatto tremare i polsi il silenzio dei corridoi deserti», racconta il medico. «Ai primi di marzo ho visto un collega rianimatore seduto davanti all’opera di Van der Weyden. Teneva la testa tra le mani, la notte aveva perso tante persone. Ma sollevando lo sguardo al quadro si è acquietato davanti a tanta bellezza: non l’avrei mai pensato, ma quel quadro per lui è stato una cura, un balsamo per l’anima». —